Ci sono cose che fai per te, anche se con dieci anni di ritardo. E le apprezzi il doppio, credo.
Sabato. Vento freddo anomalo per la stagione, e io sono su un palco con altri venticinque ragazzi. Maglietta arancio zucca, pancino che si nota (e mi forniscono di una sedia d'ordinanza), tre microfoni, una tastiera, una batteria, un basso e una chitarra. Dietro uno schermo bianco, un poco scostata c'è una tenda da pellerosse, dipinta con i colori dei cinque continenti.
La piazza si riempie, alla fine sono circa cinquecento, ragazzini brufolosi da prima liceo, diciottenni col pizzetto o le all star colorate, universitari. C'è anche un passeggino con nano (e non è il mio, e mi si stringe il cuore). Handicappati con carrozzine tecnologiche, palloncini sbattuti forte forte da un ventaccio dispettoso.
Si comincia: cantano tutti, è festa, anche se mancano le pizzette e la coca cola. Canta il ragazzetto con i bermuda e la ragazza con i leggins a righe, il francescano con i sandali e l'assistente sociale. Ci si ammutolisce solo quando dal mixer parte la registrazione di una voce: parla un uomo anziano, dall'accento straniero, con le spalle curve come se avesse tutti i dolori del mondo sulle spalle: dice tre parole "NON ABBIATE PAURA". Piango, in silenzio, perchè tra un pochino tocca di nuovo a noi, e non si può piangere e cantare; guardo la mia amica K., e anche lei ha l'occhio lucido. Poi tutto tace, ed è solo la musica. Musica che canta le lodi di Amore, parole di fraternità e di fede. Musica che in mancanza di definizione migliore è detta "sacra" anche se il mio amico G. batte con forza sulla batteria, e sembra di stare a un concerto rock. Anche quando tutto è sfumato e lieve, e i riflettori illuminano due assi di legno uniti al centro. Persino il Pezzo Grosso sembra rispettare l'atmosfera e dice sul serio SOLO due parole.
Tanti anni fa desideravo cantare di fronte a un anfiteatro pieno di gente, e sentirmi parte di un "qualcosa" di bello.
Sabato, alla faccia dei miei trentun'anni, dell'essere mamma, dei "ma che cosa ci vai ha fare?", ho
realizzato un vecchio, polveroso sogno di adolescente.
Sabato. Vento freddo anomalo per la stagione, e io sono su un palco con altri venticinque ragazzi. Maglietta arancio zucca, pancino che si nota (e mi forniscono di una sedia d'ordinanza), tre microfoni, una tastiera, una batteria, un basso e una chitarra. Dietro uno schermo bianco, un poco scostata c'è una tenda da pellerosse, dipinta con i colori dei cinque continenti.
La piazza si riempie, alla fine sono circa cinquecento, ragazzini brufolosi da prima liceo, diciottenni col pizzetto o le all star colorate, universitari. C'è anche un passeggino con nano (e non è il mio, e mi si stringe il cuore). Handicappati con carrozzine tecnologiche, palloncini sbattuti forte forte da un ventaccio dispettoso.
Si comincia: cantano tutti, è festa, anche se mancano le pizzette e la coca cola. Canta il ragazzetto con i bermuda e la ragazza con i leggins a righe, il francescano con i sandali e l'assistente sociale. Ci si ammutolisce solo quando dal mixer parte la registrazione di una voce: parla un uomo anziano, dall'accento straniero, con le spalle curve come se avesse tutti i dolori del mondo sulle spalle: dice tre parole "NON ABBIATE PAURA". Piango, in silenzio, perchè tra un pochino tocca di nuovo a noi, e non si può piangere e cantare; guardo la mia amica K., e anche lei ha l'occhio lucido. Poi tutto tace, ed è solo la musica. Musica che canta le lodi di Amore, parole di fraternità e di fede. Musica che in mancanza di definizione migliore è detta "sacra" anche se il mio amico G. batte con forza sulla batteria, e sembra di stare a un concerto rock. Anche quando tutto è sfumato e lieve, e i riflettori illuminano due assi di legno uniti al centro. Persino il Pezzo Grosso sembra rispettare l'atmosfera e dice sul serio SOLO due parole.
Tanti anni fa desideravo cantare di fronte a un anfiteatro pieno di gente, e sentirmi parte di un "qualcosa" di bello.
Sabato, alla faccia dei miei trentun'anni, dell'essere mamma, dei "ma che cosa ci vai ha fare?", ho
realizzato un vecchio, polveroso sogno di adolescente.
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